Morte figlia, Pifferi era capace di intendere e di volere al momento dei fatti

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Non era bastata la perizia del primo processo, tanto che la Corte aveva deciso di chiedere un nuovo approfondimento, anche dopo il deposito di documenti da parte della difesa, soprattutto riferiti al periodo dell’infanzia dell’imputata.

Oggi, però, è arrivata la conferma: Alessia Pifferi, la 40enne che nel luglio di tre anni fa fece morire di stenti la figlia Diana di meno di un anno e mezzo, lasciandola sola in casa per sei giorni, era pienamente capace di intendere e volere al momento dei fatti.


Lo hanno messo nero su bianco i tre esperti nominati dalla Corte d’Assise d’appello di Milano (giudici togati Caputo e Anelli), ossia lo psichiatra Giacomo Francesco Filippini, la neuropsicologa Nadia Bolognini e il neuropsichiatra infantile Stefano Benzoni. La 40enne è sì “affetta da esiti in età adulta di Disturbo del Neurosviluppo con residua fragilità cognitiva settoriale ed immaturità affettiva”, si legge nella relazione, ma queste problematiche non sono “significativamente invalidanti sul funzionamento psico-sociale”. La sua “condizione” non è di “gravità tale” da aver “compromesso” la sua “capacità di intendere e volere”, non solo in quei sei giorni in cui lasciò la piccola solo con un po’ di latte ed acqua, ma pure negli altri fine settimana in cui aveva avuto lo stesso comportamento.

Nessun vizio di mente, dunque, come aveva già accertato lo psichiatra Elvezio Pirfo nel processo di primo grado finito con la condanna all’ergastolo per omicidio volontario aggravato, come chiesto dal pm Francesco De Tommasi. Pm che ha sempre sostenuto, come deciso in sentenza, che la donna consapevolmente avesse abbandonato la bimba per andare a trascorrere un lungo fine settimana col compagno, non il padre della piccola. La stessa Procura generale, con l’avvocato generale Lucilla Tontodonati, si era opposta all’istanza difensiva di una nuova perizia, non necessaria dopo la prima valutazione di piena capacità.
Il 24 settembre, davanti alla Corte, ci sarà la discussione in aula degli esperti sull’esito degli accertamenti e il 22 ottobre il processo d’appello potrebbe arrivare a sentenza. Col riconoscimento dell’assenza di infermità mentale, la donna rischia la conferma dell’ergastolo, se non le saranno concesse attenuanti. “Il primo commento della famiglia – ha spiegato l’avvocato Emanuele De Mitri, legale della zia e della nonna di Diana, parti civili contro l’imputata di cui sono sorella e madre – è di soddisfazione, perché è stato riconosciuto non solo quello che era stato già accertato, ma anche ciò che era stato sempre sostenuto, ossia che si tratta di una persona assolutamente consapevole delle proprie azioni, non affetta da alcun disturbo, di una persona presuntuosa e arrogante”.


“La mia mente si era disconnessa”, ha provato a spiegare lei ai periti, ma quella “presunta disconnessione” non configura alcun vizio di mente. La donna, secondo la perizia, era in grado di “pianificare le azioni, di prevedere rapporti causa-effetto”.
Era consapevole e comprendeva le “potenziali conseguenze dell’abbandono della bambina” e, dunque, le sofferenze che avrebbe patito. Quella “disconnessione” semmai, si legge, “riguarda il suo essere madre”.
La sua avvocata Alessia Pontenani confida, comunque, nelle valutazioni dei giudici. “Dalla lettura si confermano la fragilità intellettiva ed i problemi mnemonici – ha spiegato -.
Anche la assoluta incapacità di simulazione. Le conclusioni verranno valutate dalla Corte”.
Intanto, l’11 settembre si tornerà davanti al gup per il procedimento – filone bis di un caso che ha scioccato l’opinione pubblica – a carico della stessa avvocata Pontenani, di quattro psicologhe e di Marco Garbarini, psichiatra e in primo grado consulente della difesa, su una presunta attività di “manipolazione” portata avanti, anche con un test falsificato, secondo il pm, per aiutare Pifferi ad ottenere la perizia in primo grado. Nonché su un ipotizzato tentativo di indirizzare l’esito verso un “vizio parziale di mente”, poi non riconosciuto. 

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